1943 UN BAMBINO E LA GUERRA Era autunno inoltrato perché mia madre ci stava affannosamente mettendo le “uose” marrone che altro non erano se non dei calzoni lunghi con un elastico sotto la scarpa. Eravamo in piedi sul tavolo della cucina appena sparecchiata dopo il pranzo di mezzogiorno, e mia madre stava facendo tutto molto in fretta. Ricordo di aver sentito suonare la sirena d’allarme, come tante altre volte, allora si scappava in mezzo a campi non molto lontani, e ci si metteva dentro ad un fosso senza acqua dalle parti della Strada del Giglio. Questa volta la fuga ci fu impedita dal cupo ronzare di una miriade d’aerei che subito fu seguito da terrificanti esplosioni. Era il 16 dicembre 1943, avevamo appena mangiato, erano le 13. Ci ritrovammo nell’angolo lontano dalla saracinesca d’ingresso del nostro garage, io in braccio a mio padre e mia sorella in braccio a mia madre. Non ricordo di aver mai sentito i miei genitori pregare assieme, ma quella volta lo fecero. Il frastuono era inaudito e sento ancora l’odore della polvere da sparo, acre, e tutto era avvolto in una densa nuvola gialla che si vedeva di là dalla piccola finestra del nostro improvvisato rifugio. I miei occhi impauriti vedevano la saracinesca ondeggiare violentemente ad ogni nuovo scoppio, e tremavo tra le braccia tremanti di mio padre. Il rifugio era tanto improvvisato quanto inadeguato, infatti, sopra di noi c’era solo il bagno con il tetto a terrazza e se uno di quei micidiali ordigni che piovevano dal cielo fosse caduto sopra di noi, certamente non sarei qui a raccontarlo. Certo non capii subito il pericolo corso, ma presto presi coscienza di cosa fosse un bombardamento aereo. Io e la mia famiglia siamo stati sotto il bombardamento più grave che ha colpito Padova, e quel giorno del 1944 ha portato in quella che era la sua bella periferia dell’Arcella lutti e distruzioni. Il bersaglio di tanta furia era la non lontana stazione ferroviaria, ce ne rendemmo conto quando, smarriti e ancora tremanti ci siamo visti chiedere aiuto da una donna che veniva da là, forse una vicina, che tutta insanguinata chiedeva acqua per togliersi di dosso sangue non suo, ma di feriti che aveva soccorso, o di morti che aveva dovuto spostare. Il gesto del rubinetto che mio padre apriva e, sorpreso, costatava che neanche l’acqua era stata risparmiata, il ripiego sulla bottiglia dell’alcool, il rapido ripulirsi della sconosciuta, furono gli ultimi gesti che ricordo prima di uscire da casa e salire in canna alla bicicletta di uno dei miei genitori. Fuori ci attendeva una dura realtà. Vedemmo la gente, i nostri vicini, spauriti, feriti, che attendevano un’aiuto che tardava a raggiungerli. Il barbiere abitava a due passi da noi appena dopo il ponticello che attraversava una canaletta. Era là seduto su di una seggiola impagliata il capo fasciato da una benda zuppa di sangue. Attorno la gente, attonita e silenziosa, con qualche lacrima agli occhi. Il tratto di strada tra le case fu breve, e brevi sono i ricordi di quell’umanità offesa e ferita. Io che credo che in quella giornata il mio Angelo Custode abbia proprio fatto lo straordinario per me, ed io, senza ringraziarlo, correvo verso la campagna con i miei, vivo e incosciente del pericolo corso. Ci allontanavamo dalla città fuggendo una guerra che io bambino cominciavo a conoscere e odiare, e che marcava in me il primo ricordo cosciente della mia vita.
|
||